Come far sopravvivere più di sette miliardi di persone se un evento catastrofico annullasse le produzioni agricole? Se lo è chiesto l’ente americano “Global Catastrophic Risk Institute” che si è anche risposto proponendo processi di produzione alimentare alternativi a quelli tradizionali
Il film “Interstellar”, uscito nel 2014 e diretto da Christopher Nolan, fu la prima pellicola di genere fantascientifico avente quale tema di fondo l’agricoltura. Narra infatti di una crisi climatica che impatta sui raccolti di tutto il Mondo mettendo a rischio la sopravvivenza del genere umano. A salvarlo ci penserà però un agricoltore già pilota di astronavi della Nasa che viene richiamato in servizio per andare alla ricerca di Pianeti atti ad avviare nuove produzioni alimentari. Di fatto un bel polpettone hollywoodiano che ha basato gran parte del proprio successo su una delle ansie oggi più sentite dal subconscio collettivo: la possibilità che si inneschino catastrofi climatiche irreversibili. Allo stesso tema ha deciso di dedicare uno studio specifico anche il “Global Catastrophic Risk Institute” del Colorado, ente preposto a valutare i rischi globali cui potrebbe essere soggetto il Mondo e, se possibile, a trovare il modo di farvi fronte. Ha analizzato sei diversi scenari che potrebbero verificarsi in un prossimo futuro a danno dell’agricoltura, spaziando dai già citati cambiamenti climatici globali di forte intensità, alle aggressioni di malerbe, da agenti patogeni, da batteri o da piaghe non contrastabili su larga scala. Ipotizzato anche un possibile oscuramento solare dovuto all’impatto di asteroidi, a eruzioni vulcaniche o a inverni nucleari, tutte situazioni che però sono risultate poco realistiche a eccezione di quella relativa ai cambiamenti climatici di forte intensità, diversi da quelli lenti e progressivi che sembrano in atto al momento e tali da dar luogo a variazioni medie delle temperature comprese fra i 20 e i 30 gradi. Anche in questo caso le probabilità che il fenomeno si verifichi sono minime, una su mille, ma se ciò accadesse non è detto che il genere umano si estinguerà. L’analisi statunitense individua infatti i possibili metodi atti a produrre alimenti che possano fornire l’apporto energetico sufficiente a sfamare l’Umanità per almeno cinque anni e ciò partendo dal fatto che nei Paesi più avanzati si potrebbero rapidamente allestire adeguate scorte all’avviarsi della crisi per garantire la sopravvivenza delle popolazioni locali nei primi sei mesi di difficoltà, in attesa che vadano a regime i metodi di produzione alimentare alternativi. Con buona pace di chi vede gli uomini “tutti uguali e con gli stessi diritti” ci sarebbe quindi una selezione basata su discorsi politici ed economici, ma nessuna rapida estinzione. Quest’ultima verrebbe poi ulteriormente evitata grazie alle biomasse secche derivate da vegetali no food, risorsa quantizzata in circa mille e 200 miliardi di tonnellate. L’abbattimento di alberi ad alto fusto darebbe luogo a circa tre miliardi di metri cubi di legname all’anno che, con una densità secca di cinque quintali al metro cubo, assicurerebbe una massa secca di circa un miliardo e mezzo di tonnellate. Frantumando le fibre vegetali del legno sarebbe possibile disporre di grandi quantità di cellulosa quali fonte di cibo per gli animali da allevamento, né va dimenticata la possibilità di usare il substrato legnoso parzialmente decomposto da funghi quale alimento diretto del bestiame. Vegetariani e vegani dovrebbero quindi cambiare le loro abitudini o rassegnarsi all’estinzione, ma la specie umana continuerebbe, complice anche la possibilità di far fronte a un buon 25 per cento del fabbisogno alimentare con gli stessi funghi destinati agli allevamenti. Grazie a tali soluzioni l’Uomo potrebbe tirare avanti per circa quattro anni, fermo restando che la vera fonte di cibo sarebbe poi costituita dagli insetti, in particolare quelli che più di altri riescono a trasformare la cellulosa disponibile in calorie. Purtroppo sono gli scarafaggi quelli più adatti allo scopo, ma visto che c’è di mezzo la sopravvivenza non si potrebbe essere troppo schizzinosi, soprattutto se si pensa che gli scarafaggi si riproducono con ritmi elevatissimi e ciò permetterebbe di disporre in quattro anni del cento per cento del fabbisogno calorico. La dieta a quel punto potrebbe essere variata giocando sul fatto che rimuovendo la lignina attraverso la cosiddetta “muffa bianca” si lascerebbe l’80 per cento circa delle calorie nel prodotto processato che diventerebbe fonte di cibo per varietà animali a noi più congeniali come per esempio il pollame. Già oggi il due per cento del fabbisogno alimentare mondiale è fornito da uova e carni di pollo e gli stessi alimenti potrebbero saturare le richieste di cibo in caso di catastrofe nel giro di un solo anno. Vero è, però, che in ogni caso si dovrebbero riorganizzare le produzioni e che per far fronte a tali transitori sarebbe comunque necessario disporre di adeguate scorte mettendo anche mano alla vegetazione non legnosa che rimarrà a disposizione per permetterne un’assunzione diretta, facilitata mediante bolliture delle piante o estrazione dei loro succhi. La quantità di vegetazione non legnosa sulla Terra ammonta a circa 90 miliardi di tonnellate e anche se solo un terzo di questa fosse utilizzabile e non tossico per l’uomo, assumendo un’efficienza di estrazione del cinque per cento basterebbe ad assicurare la sopravvivenza dell’intera Umanità per circa sei mesi. Le biomasse sottili potrebbero inoltre dar luogo a processi basati sull’utilizzo di batteri per la conversione della cellulosa in zucchero. A quel punto fra zucchero, funghi e capi di allevamento si realizzerebbe una filiera atta a rialimentare l’Umanità, fermo restando che alla nuova dieta mancherebbero comunque le vitamine alle quali potrebbe però provvedere l’industria degli integratori alimentari.