Nè Coldiretti nè Greenpeace

La crescita agricola è stretta in una morsa. Da un lato gli ambientalisti che attaccano chimica, genetica e allevamenti. Dall’altro Coldiretti che propugna un’agricoltura di nicchia tesa alla produzione di prodotti tipici. Posizione di comodo in quanto le permette di erigere muri contro tutto ciò che potrebbe attaccare il suo potere. L’industrializzazione agricola, le produzioni non tradizionali, le produzioni estensive in primis, ma anche gli ogm, la carne coltivata e gli accordi di libero scambio. Le due lobby trovano il loro punto d’incontro nel biotech, con Coldiretti per anni fautrice di posizioni vicine a quelle di Greenpeace salvo concedere timide aperture alle tecniche di genome editing. Diverse invece le vedute relative al protezionismo, con Coldiretti accanita sostenitrice delle barriere frontaliere. La più recente levata di scudi in tal senso contro l’accordo commerciale siglato da Bruxelles con i Paesi afferenti a Mercosur, mercato comune degli Stati dell’America Meridionale. La paura è sempre la solita, quella di vedere arrivare in Italia prodotti stranieri che possano fare concorrenza ai nazionali. Può essere, visto che l’accordo coinvolge oltre 700 milioni di persone, ha richiesto vent’anni di logoranti negoziati prima di giungere alla firma e ora crea la più vasta area di libero scambio esistente al Mondo, ma la concorrenza è nota per essere uno stimolo al mercato, come ben dimostra l’altro accordo cui Coldiretti si oppose senza risultati, il Ceta, patto di libero scambio tra Ue e Canada siglato nel 2017. Anche al- lora il Sindacato strillò la distruzione dell’economia italiana e sostenne i protezionisti nazionali, ma fece una figuraccia.

Con l’entrata in vigore del Ceta le esportazioni europee verso il Canada sono infatti aumentate di oltre il 60 per cento dando luogo a un aumento stimato del 12 per cento dei posti di lavoro nei settori per i quali vale l’accordo. Allora come oggi solo una presa di posizione “pro domo propria” dunque, un interessato protezionismo cui si è poi affiancato anche il già citato e altrettanto interessato “no” alle carni coltivate, bollate spregiativamente come “sintetiche” anche se tali non sono. Un tema che però ha visto Coldiretti scontrarsi con Greenpeace che spinge invece proprio queste nuove frontiere alimentari vedendovi un potenziale grimaldello per far chiudere gli allevamenti intensivi, tesi peraltro sostenuta con tecniche comunicative evolute ed e caci, tanto da condizionare media e politica. Una capacità che le associazioni sindacali non hanno. Provano sì a rispondere per le rime, ma annaspano senza articolare tesi diverse dal solito principio di precauzione o dai stantii timori per l’occupazione.

Certamente è dura rispondere a una lobby che l’immaginario collettivo suppone priva di interessi commerciali, quando si è visti inquadrati quale lobby di parte, ma proprio per tale ragione, la comunicazione dovrebbe essere al centro delle attenzioni sindacali, scegliendo i giusti canali, i partner più qualificati e gli argomenti più efficaci. Costa, si sa, ma sempre meglio che rispondere goffamente agli attacchi di chi invece gode della massima visibilità e, purtroppo, di una immeritata credibilità. Di certo, non ha centrato l’obiettivo Ettore Prandini, Presidente di Coldiretti, nella recente risposta a Greenpeace sugli impatti ambientali degli allevamenti, incartandosi su spiegazioni scienti che al di fuori della sua portata circa le emissioni del comparto zootecnico. Fra una risposta claudicante e un dignitoso silenzio, infatti, è sempre preferibile quest’ultimo. Vero è che che impedire a Coldiretti di cavalcare scempiaggini è come voler svuotare il mare con un bicchiere.

Titolo: Nè Coldiretti nè Greenpeace

Autore: Redazione

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