Coldiretti continua a definirsi “Forza amica del Paese”. peccato che spesso le azioni non confermino le parole, come accade per esempio in tema di Made in Italy, di mondo consortile agrario e di ogm
Sono passati ormai dieci mesi da quanto Coldiretti presidiò il Passo del Brennero per impedire ai Tir stranieri di portare nel Belpaese cosce di maiale e altre materie prime foreste. Anche sorvolando sul fatto che i barricaderi giallo-verdi tuonavano a favore del Made in Italy bardati di giacconi Made in China, dal settembre 2015 a oggi vanno purtroppo registrate numerose altre performance a cavallo fra il protezionismo più ottuso e il clientelarismo più retrivo, veri tessuti connettivi fra politica e business in un’Italia ove il liberismo viene da sempre additato come un male sebbene di questo non se ne sia mai vista l’ombra. Magari anche a causa delle molteplici mafie, con lupara o senza, che da 70 anni infestano governi, enti e, perché no, anche associazioni e mondo cooperativistico. In tali avvilenti scenari Coldiretti pare muoversi perfettamente a proprio agio, alternando momenti mediatici pregni di bei proclami ad altri in cui il Sindacato si è più che altro dimostrato inarrivabile quanto a capacità di pompare quattrini nelle proprie casse e di rafforzare la propria influenza come lobby. Ultimo esempio quasi comico del protezionismo di facciata che caratterizza i Nostri, la protesta inscenata a Roma contro kebab e sushi nei centri storici delle città, ove dovrebbero imperare, secondo loro, solo baccalà fritto da passeggio o panini con la milza. Ricette peraltro squisite, le quali devono però fare i conti con i liberi gusti e la libera scelta dell’attuale società multietnica che pare farsi un baffo dell’indignazione da copione di Coldiretti. Molto meno comici i circa 900 milioni di euro che la Corte di Cassazione ha stabilito debbano essere versati al Sindacato quali risarcimento dei crediti nati nel Dopoguerra per l’ammasso obbligatorio dei prodotti agricoli nazionali, attività svolte per conto dello Stato dai consorzi agrari, oggi feudo giallo-verde. Una grassa boccata di ossigeno all’asfittico mondo consortile di Coldiretti, alla quale andrebbe però anche chiesto conto dei danni, tangibili e intangibili, causati all’Italia dal crack miliardario di Federconsorzi nel 1991. Tetragona invece a qualsiasi polemica Coldiretti prosegue il proprio slalom fra politica e mercato, trasformando ogni qualsivoglia evento, anche il più commerciale, in occasione di autocelebrazione di sé e del millantato Made in Italy, talvolta sconfinando la soglia dell’impudenza. Con buona pace del baccalà fritto e dei panini alla milza, per esempio, il 6 maggio vennero suonate le trombe a Jolanda di Savoia, in provincia di Ferrara, ove presso la sede di Bonifiche Ferraresi, altro feudo coldirettiano, si celebrarono da un lato le sedicenti eccellenze italiane, mentre dall’altro veniva schierato qualche milione di euro in macchine agricole acquistate da John Deere, multinazionale americana con stabilimenti in Germania. Ma come? Da una parte si urla allo scandalo perchè quattro pizzicagnoli armati di sushi e kebab insidiano pizze e pastasciutte e poi ci si congratula con chi compra milioni di euro di mezzi stranieri? Il tutto, tra l’altro, col beneplacito di un onnipresente ministro Maurizio Martina che in teoria dovrebbe difendere il Made Italy non solo quando si parla di cibo, ma a 360 gradi. Intendiamoci, complimenti alla Casa del Cervo per il colpo messo a segno, visto che in un libero business non devono certo entrare considerazioni sulle magagne etiche e politiche dei propri clienti, e nessuna critica alla validità tecnica delle scelte che questi ultimi hanno avanzato. La critica non riguarda in effetti le macchine in sé quanto l’ipocrisia di chi da una parte ciancia di Made in Italy quando posta in favore di telecamere, salvo poi fare business coi venditori cinesi di giacche a vento, coi fornitori stranieri di macchine agricole e, perché no, coi mangimi fatti con soia americana ogm e venduti a tonnellate proprio dai suoi consorzi agrari, al fine di produrre quei salumi e quei formaggi proposti poi quali fiori all’occhiello dell’Italia agroalimentare.