Un tempo i bar erano frequentati quasi esclusivamente da uomini che si intrattenevano disquisendo di donne, sport e politica. Oggi al bar ci vanno tutti e agli argomenti di cui sopra si sono aggiunti cibo e agricoltura. Anche loro però trattati in maniera quanto mai disinformata e superficiale
Probabilmente a causa di Expo e sulla scia dei tanti reality che pervadono le reti televisive occupandosi di cibo, mai come di questi tempi il tema in questione è protagonista di dibattiti , discussioni, affermazioni e scontri quasi sempre basati su buone dosi di disinformazione, superficialità e populismo. Nella maggior parte dei casi, quindi, solo chiacchiere da bar, alla cui diffusione provvedono due precise categorie di pseudo esperti, i “nutrizionisti” e gli “economisti”. I primi sono soliti discutere con accanimento dei contenuti nutritivi dei vari alimenti senza avere la più pallida idea di cosa sia il contenuto nutrizionale di un cibo, i secondi inquadrano invece il problema “alimentazione” in termini commerciali partendo sempre e comunque da un medesimo assioma: è brutto e fa male tutto ciò che arriva dall’estero. Accade così che i nutrizionisti se la prendano, per esempio, con l’olio di palma ignorando che questi è tra gli alimenti che l’Onu distribuisce quale aiuto umanitario in Sierra Leone, mentre gli “economisti”, sparano a zero su Ttip e libero scambio senza sapere, o facendo finta di non sapere, che l’Italia è dai tempi degli Etruschi che importa materie prime agricole dall’estero. Latte, cereali e carni che servono per produrre ed esportare formaggi, pasta e prosciutti a marchio “Made in Italy”. All’economista da bar, questa situazione non piace a priori e anche se gli si spiega che l’Italia importa perché non ce la fa a produrre le derrate che servirebbero a sostenere il suo export, lui non lo capisce, esattamente come non capisce che il mercato internazionale fa la ricchezza delle migliori aziende del settore e non è il caso di perdere tali posizioni. Un esempio in tal senso Barilla, prima produttrice italiana di pasta. Nel suo sito l’Azienda spiega che il 25 per cento del grano duro usato per le sue produzioni proviene dal Nord America e dalla Francia e proprio grazie a queste importazioni riesce a garantire gli standard di sicurezza e qualità dei prodotti senza incidere troppo sui prezzi. Chi opera nel settore sa che in effetti i cereali vedono i propri contenuti proteici e le contaminazioni da muffe molto condizionati dal clima né si può sorvolare sulle variazioni di prezzo proposte dal mercato. Ne deriva che solo miscelando grani di diverse provenienze si può tutelare il consumatore, ragionamento che però gli economisti non accettano per partito preso invocando la chiusure delle frontiere. Ultime in tal senso le rampogne lanciate contro il grano Ucraino, Paese che grazie all’abbattimento dei dazi doganali è diventato il nuovo “granaio d’Europa” garantendo ingenti quantità di cereali ai molini industriali d’Europa. Certamente è difficile far digerire agli agricoltori italiani il fatto che il mercato vada là dove i prezzi sono più bassi, regola che non vale solo per il grano, ma per qualsiasi altro prodotto, ma è vero che se il settore cerealicolo nazionale non riesce a essere competitivo con l’Ucraina, che tra l’altro si trova in una devastante guerra civile dal 2014, la colpa non è del libero mercato, ma della mancanza di visioni strategiche del settore primario nazionale e della sua parcellizzazione, quel “piccolo è bello” che troppo spesso viene proposto quale forma di difesa dell’agricoltura italiana mentre in realtà è la via verso la rovina. In un Mondo sempre più globalizzato servono in effetti produzioni di sempre più ampi volumi e dato che esportare tecnologie per andare a produrre dove più conviene non è un problema, ecco che chi non si propone con volumi adeguati è certo che finirà male. La si deve smettere quindi di demonizzare chi importa materie prime e, semmai, lavorare per rendere più competitive le nostre produzioni così che il settore della trasformazione, quello cui di fatto si lega il vero “Made In Italy”, non sia costretto a scegliere fra ciò che si produce al di qua o al di là delle Alpi. E se qualcuno non fosse d’accordo sul fatto che il vero plus del Made in Italy è nella trasformazione, può convincersi della cosa semplicemente pensando al caffè. In Italia non se ne produce neanche un chicco e in Svizzera men che meno. Il marchio Illy, italiano, è però famoso nel Mondo e lo stesso vale per il marchio Nespresso, svizzero. Entrambi comprano caffè, lo trasformano e lo rivendono, esattamente come fanno molti caseifici italiani col latte e, con le carni, parecchi salumifici. Nessuno al momento ha ancora “sparato” contro Illy o Nespresso, ma è meglio non farsi prendere da facili entusiasmi. Al bar basterà uno spritz di troppo e subito ci sarà qualcuno che giurerà di aver visto ettari di terra coltivati a caffè fra l’Alto Adige e la Sicilia.