Negli ultimi mesi uno dei temi più discussi relativi all’agroalimentare italiano è individuabile nella proposta di legge governativa tesa a vietare la produzione e la commercializzazione della carne coltivata in vitro. Quasi che il prodotto sia alle porte e siano disponibili informazioni concrete su di lui. In realtà la carne coltivata al momento e presente solo nei lontanissimi supermercati di Singapore e solo pochi tecnici di settore conoscono il prodotto. Giusto quindi fare chiarezza su cosa sia la carne coltivata, metterne a fuoco pregi e difetti ed analizzarla anche a livello di future potenzialità di mercato. Una disamina oggettiva deve però basarsi sul concreto, non sull’ideologico, e quindi si deve accettare l’idea che dal punto di vista della composizione chimica e nutrizionale, la carne coltivata è l’esatta riproduzione della carne ottenuta da allevamenti tradizionali.
Il processo produttivo
Il processo produttivo si svolge però presso aziende specializzate in biotecnologie alimentari partendo dal prelievo di cellule staminali dalla specie animale che si vuole riprodurre, le stesse che sono poi nutrite e fatte moltiplicare in un bioreattore. Dopo questo passaggio, le cellule vengono avviate a una ulteriore fase di crescita – la coltivazione vera e propria – su un supporto tridimensionale che dà luogo a tessuti muscolari il più possibili simili a quelli della specie di riferimento. Va precisato che il processo è relativamente standardizzato e non è dissimile da quanto vien fatto a livello medico per replicare i tessuti umani oggetto di successivo trapianto.
Carne in vitro, i problemi che ne ostacolano la diffusione
Tre i problemi ostacolano però la diffusione su larga scala della carne coltivata il primo dei quali costituito dalla difficoltà di far assumere al prodotto una consistenza simile a quella proposta dalla carne di allevamento conferendogli anche, secondo problema, i rapporti grassi/proteine ricercati dai consumatori. Detto in parole povere accade che la carne coltivata assomigli più a un hamburger che a una bistecca. In terzo luogo e a distanza di dieci anni dal primo hamburger in vitro cucinato e mangiato durante una conferenza stampa a Londra, non tutte le procedure di coltivazione che funzionano bene nelle piccole dimensioni dei laboratori riescono con uguale successo una volta portate in scala industriale. Questo anche perché molte delle procedure necessarie per la produzione di carne sono protette da brevetto e finché non vi saranno fusioni o accordi tra aziende che hanno mutua esclusiva su tecniche “complementari”, il processo di industrializzazione del settore sarà rallentato se non del tutto impossibile. Il rischio o la possibilità di mangiare carne coltivata è in definitiva ancora lontano e proprio per questo si può analizzare il prodotto in maniera oggettiva e serena a livello di salubrità e sostenibilità, con la salubrità osteggiata dagli oppositori della carne in vitro causa la sua origine “non naturale”, indotta da un processo produttivo che non garantirebbe uguale sicurezza alimentare al consumatore.
Sostenitori e critici della carne in vitro
Fra i principali sostenitori della carne coltivata invece le associazioni animaliste e ambientaliste, perché la sua diffusione consentirebbe di diminuire il numero di animali allevati nel Mondo, e quindi la loro sofferenza e le emissioni di gas inquinanti. I documenti ufficiali e la letteratura scientifica danno però parzialmente torto a entrambe le parti. La salubrità della carne coltivata è in effetti stata sancita lo scorso 21 marzo da Food and Drug Administration, l’organo di controllo per la salubrità degli alimenti statunitense, dichiarato che “non ci sono ulteriori dubbi” al riguardo aggiungendo che il prodotto deve sottostare agli standard alimentari del Paese e ai controlli tesi a tutelare il consumatore. Da tener presente poi che il processo produttivo per la carne coltivata evita gli interventi umani di macellazione riducendo i rischi di contaminazione delle carni. Non solo, escludendo l’allevamento si azzera l’utilizzo di antibiotici e – nei Paesi dove sono permessi – anche degli ormoni della crescita, sostanze i cui presunti residui nei prodotti convenzionali spaventano quanti non vorrebbero la carne coltivata nei supermercati. Vero invece che la carne coltivata gioca a sfavore degli allevamenti, ma solo di quelli intensivi e senza ritorni positivi in termini di abbattimento delle emissioni. Lo scorso 21 aprile una pubblicazione emessa da un gruppo di ricerca diretto da Derrick Risner dell’Università di California Davis, uno dei più prestigiosi Enti al Mondo sul tema, ha infatti presentato un’analisi tecnico economica delle tecnologie attualmente a disposizione per la produzione di carne coltivata, stimando sei possibili processi produttivi. Di questi, tre mostrano una versione ottimista del processo, in cui si ipotizza un perfezionamento delle tecniche di crescita cellulare che permetta di utilizzare materie prime con un impatto ambientale “tipico” della filiera agro-alimentare, mentre gli altri tre ipotizzano che si continuino a utilizzare materie prime con livelli di purificazione del settore medico-farmacologico.
Per chiarire, le cellule utilizzate per la produzione di carne coltivata, date le tecnologie attuali, necessitano per crescere di acqua e nutrienti molto puliti, per cui sono necessari processi di ultrafiltrazione e raffinazione che hanno un costo energetico elevatissimo. Il problema è che la maggior parte delle analisi di impatto pubblicate sinora non citano questo punto fondamentale, ma saltano direttamente alle possibilità di creare la carne utilizzando acqua filtrata e sterilizzata e materie prime di facile reperimento. Peccato che non esistano nel breve periodo soluzioni per rendere tali processi possibili. Il risultato finale è che, confrontando la migliore stima di impatto ambientale per la carne coltivata con la migliore stima per quella convenzionale, la seconda batte la prima con una produzione di poco inferiore ai dieci chilogrammi di anidride carbonica emessa per chilo di carne contro gli oltre dodici chilogrammi di anidride carbonica emessi per produrre carne coltivata. E il dato peggiora nettamente considerando le tecnologie reali. Alimentare i bioreattori con materie prime purificate le emissioni di anidride carbonica per chilo di carne potrebbero superare la tonnellata e mezza. A chiudere un’analisi dell’attuale sviluppo della filiera e del mercato della carne coltivata.
I dati più interessanti al riguardo sono pubblicati sul report periodico pubblicato da Good Food Institute e secondo il documento il 2022 è stato un anno da record avendo visto nuovi investimenti nel settore per 896 milioni di dollari raggiungendo i due miliardi e 780 milioni di dollari. Le aziende che hanno dichiarato il proprio coinvolgimento nel settore sono diventate 156, partendo da 107 dell’anno precedente, ma si stima siano molte di più. Nestlé, Jbs, Tyson Food, Mitsubishi e Cargill hanno dichiarato importanti investimenti, ma molte multinazionali stanno probabilmente investendo di nascosto su questa tecnologia. A livello paese accade poi che quelli che stanno investendo di più siano gli Stati Uniti, il Regno Unito, Israele e Singapore. I primi due non stupiscono, gli Usa sono da sempre i primi investitori in tecnologie alimentari e il Regno Unito ha una centenaria cultura per lo sviluppo di alimentari alternativi alla carne. Israele e Singapore rappresentano invece un “nuovo” modo di concepire la produzione alimentari. Costretti in poco spazio e in aree del mondo a reali o potenziali tensioni geo-politiche, con grandi risorse tecnologiche ed economiche alle spalle, entrambi i Paesi da anni investono infatti in innovazioni che gli permettano di diminuire l’import di alimenti come la coltura verticale e – oggi – la carne coltivata.
Carne in vitro, una realtà emergente che genererà profitti
Per concludere, dunque, se il processo produttivo ha ancora ampi margini di miglioramento, la carne coltivata rappresenta una importante realtà che presto o tardi si affermerà nel panorama agro-alimentare mondiale. In questi casi, come sempre ci sono due approcci alla novità, quello di infilare la testa sotto la sabbia per far finta di non vedere e quello cercare informazioni e studiare le opzioni per poter partecipare ai profitti che genererà la nuova filiera. Sarebbe da saggi optare per la seconda.
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Titolo: Carne in vitro, chi non sa si informi
Autore: Eugenio Demartini